Non cerco lavoro, ma la missione dell’anima

Settembre, mese di ripartenze…le ferie, se ci sono state, già lontane, il clima fresco ricorda l’arrivo dell’autunno, eppure c’è ancora un sole caldo che colora la pelle, che regala sere d’estate fra la voglia di quel tempo ancora un po’ rallentato e l’orologio che scorre e dice…ci siamo!

Ognuno al lavoro, portandosi dietro l’eco di un’estate intensa..e si ri-comincia: chi con entusiasmo, chi con una smorfia di fatica e chi ad ogni ri-inizio si domanda se quello che fa sia davvero quello che è per sé. Il lavoro che facciamo, la vita che conduciamo, può essere espressione di noi stessi o il frutto di una serie di cose che “si devono fare”.

Siamo qui per uno scopo, legato alla nostra vita, alla nostra esistenza che si intreccia inevitabilmente con le vite degli altri.

Da piccoli abbiamo tantissima fantasia nel dipingerci i futuri lavori: amiamo le caramelle e vogliamo aprire un negozio di caramelle, amiamo i peluche e vogliamo produrne di nuovi, amiamo la nostra maestra e vogliamo essere i futuri insegnanti. Sogniamo le professioni più disparate senza preoccuparci di un’eventuale coerenza nelle dichiarazioni. Siamo carta bianca che si scrive da sé. Talvolta nella libertà di un contatto diretto con ciò che sentiamo, talvolta già condizionati da quelle relazioni in cui siamo immersi.

Che poi il problema non è se il padre, la madre, il nonno o l’insegnante ci dipingono e costringono a fare una certa professione piuttosto che un’altra…il nodo è quello che noi ci diciamo di dover essere o di dover diventare…quanto crediamo a quelle parole più o meno rumorose.

Quanto le nostre scelte per il nostro futuro sono in accordo con la parte profonda di noi stessi o piuttosto rispondono a un bisogno inconsapevole di altro? Arriva, arriva il momento in cui ti domandi il perché di quella scelta. Magari è stata un’esperienza rimossa che ti ha portato lì dove sei, magari è stata una stratificazione di sotterranei condizionamenti che hanno portato a dove sei adesso e….. quindi rivedi tutto. Se non ci fossero stati cosa avresti scelto? Ci sono esperienze che ti marchiano a fuoco, che danno una brusca sterzata alla direzione e lo devi guardare tutto quel percorso, quella strada deviata, per capire, forse, che quella “deviazione” è la frattura da cui è nata la luce. Accetti che quello che è accaduto e si è mostrato così tardi ti ha immesso nella strada che è tua, ma che non hai mai sentito così viva perché non ne sapevi il potenziale trasformativo.

Se sono i nostri stessi condizionamenti a guidarci, se aderiamo a quello che abbiamo imparato essere giusto, buono, lodevole e “va fatto questo”…i margini di scelta sono ben pochi. Agiamo sul buon senso, sui paletti che il nostro ego ci mette per poter essere accettati, per poter andare bene; rispondono a copioni già provati e approvati che assicurano una certa dose di sicurezza, ma tengono lontano dalla soddisfazione e dalla fluidità. Troppo duro e faticoso agirci? Tanto forti saranno i segnali affinché tu possa rimboccarti le maniche e agire.

Ci sono volte in cui confondiamo il “mi riesce bene qualcosa” con “è questo che devo fare!”. Accade quando stai al gioco di ciò che la vita ti propone, quando cominci a smettere di controllare severamente il tuo percorso prescritto, abbandoni il timone e dici “vediamo quello che viene”. E qualcosa arriva per risonanza…di cosa? Basta un piccolo aggancio dell’ego per portarti in una situazione dai nuovi scenari che mai avresti pensato e in cui ti muovi incerta, ma avida di conoscenza ed espressione. Un mettersi in gioco continuo, un rinnovamento della pelle senza interruzione che ti fa vestire e spogliare continuamente di quello che al momento le situazioni ti propongono. Indossi ogni abito, osservi e vedi uscire da te cose che non credevi, incontri persone che risuonano e sono per te tutte prove che è quella la strada. Poi il flusso si interrompe, il vestito nuovo pizzica, quello dopo fa fatica indossarlo, i panni ancora più vecchi fanno nostalgia e le situazioni fino ad allora feconde anche nella difficoltà, diventano macigni sempre più grandi. E quindi? È l’ego che si oppone alla manifestazione dell’anima o è la strada sbagliata? La strada era quella. La strada è quella. Il fallimento perché? La precarietà perché? Questo dolore e questa insoddisfazione perché? L’artiglio dell’ego si è appigliato al riconoscere il proprio valore in base a ciò che si fa. Non ci sono condizionamenti, è vero, non c’è controllo totale, è vero…. c’è il dare alle cose la responsabilità di vestirti. E qui parla il fuori non il dentro. Occasione preziosa per dare vita ad aspetti di sé presenti, ma non dell’anima. L’anima non si veste. L’anima non ha vestiti, l’anima è. E non ha bisogno che il fuori dica cos’è perché appunto è. L’anima presiede e lascia che quell’artiglio impigliato dell’ego si mostri perché possa essere disincagliato e accolto.

E la missione dell’anima qual è? Come si capisce, come si conosce?

Nell’ascolto interiore silenzioso, ancora una volta integrazione! Ogni esperienza, ogni situazione ha evidenziato e portato alla luce parti di sé che dovevano essere indagate, che dovevano essere esplorate, viste e assaporate. Celebrate nella loro ricchezza, ma non assolutizzate come fonte di essenza. Strumenti. Frammenti o pezzi grossi che accendono, che servono ad avvicinare all’anima, che sono quelle cose di noi che una volta scoperte non si buttano, una volta espresse non si mettono nell’angolo, ma si portano insieme a tutti gli altri pezzi perché possano suonare una nuova armonia, dove chi suona è l’anima. Dove il suono dell’anima passa senza inizio né fine. Dove senti la connessione profonda con tutto, dove ti senti strumento, dove non sei solo e sai che quello che accade è anche per te e ti nutre senza che tu abbia sentito la fame.

Nel caos più potente, nel rimescolare continuo delle carte sul tavolo….chiedere il contatto con l’anima, darle la parola perché si esprima senza parole…sentendo dentro anziché “stare a vedere cosa viene”, o meglio, osservando e permettendo che quello che risuona con l’anima si avvicini e manifesti.